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Il fenomeno della Great Resignation in Italia colpisce anche il settore vendite?

Aggiornamento: 3 giu 2022



Nel mondo del lavoro è in atto una rivoluzione. Secondo uno studio di McKinsey, il 40% dei lavoratori a livello mondiale è propenso a cambiare lavoro nei prossimi 4-6 mesi, il 53% degli imprenditori intervistati ha affermato di avere un turnover volontario maggiore rispetto agli anni precedenti e il 64% si aspetta che il problema continui, o peggiori, nei prossimi sei mesi. Questo fenomeno prende il nome di Great Resignation (GR) o, come la chiama McKinsey, Great Attrition.


Innanzitutto: cos'è la Great Resignation? Negli ultimi mesi abbiamo incominciato ad osservare nel mercato del lavoro italiano un evento che a partire dal 2020 ha colpito gli USA, ossia lo straordinario ed inaspettato aumento di dimissioni volontarie da parte dei lavoratori statunitensi che sembrerebbero causate da molteplici fattori: il burn out che sempre più frequentemente affligge il personale (vedi schema relativo all'Italia di seguito), la ricerca di impieghi con salari più alti, maggiore flessibilità e migliore bilanciamento del work-life balance, oltre la tendenza all'imprenditoria che sta portando i Millennials e parte della Generazione Z ad abbandonare il posto fisso per avviare nuove attività (Yolo Economy).



La GR sta scardinando le antiche convinzioni su cui poggia il nostro rapportarci con la sfera lavorativa: il lockdown, la pandemia, e la scoperta di quel fantastico strumento produttivo, quando è utilizzato bene (...), chiamato smart working, ha definitivamente messo in crisi il modello del “workism” e dei "workaholics", l’idea cioè che per valorizzarsi ed affermarsi l'unica via sia quella di dedicare l’intera vita al lavoro, senza orari, senza ferie, senza possibilità di curare un sé alternativo rispetto alla propria identità professionale.


Il trend è chiaro e i dati non mentono: l’indice delle dimissioni negli Stati Uniti ad agosto 2021 è stato del 19%, per un valore record di 4,6 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il lavoro, superiore quasi del 20% rispetto ai dati registrati durante lo stesso mese del 2019. Dalla primavera 2021 il valore medio è stato di 4 milioni circa.



Sempre seguendo la ricerca di McKinsey, che ha coinvolto quasi 6mila persone in età lavorativa di Australia, Canada, Singapore, Regno Unito e Stati Uniti, emerge un dato inaspettato che sorprende e segna un punto di discontinuità rispetto al passato: il 36% di chi si è licenziato non aveva ancora in mano un nuovo lavoro. Ed è proprio questo aspetto che caratterizza il fenomeno della GR che, diversamente dai precedenti cicli di regressione e ripresa, sta portando le persone a fare un vero e proprio salto nel buio, scommettendo sul fatto di riuscire a trovare sul mercato posizioni lavorative più qualificate e meglio retribuite.


La stessa fotografia è stata scattata anche dallo studio dell’IBM Institute for Business Value (IBV), condotta su più di 14.000 persone in tutto il mondo: nel 2021 1 dipendente su 5 ha cambiato volontariamente lavoro e 1 persona su 4, a livello globale, intende cambiare posto di lavoro nel 2022.

I giovani giocano la parte principale in questo fenomeno: Generazione Z con il 33% e Millennial con il 25%.

Secondo lo studio dell'IBV le persone cambiano lavoro perché vogliono dedicarsi a coltivare ed accrescere le proprie competenze. Sembrerebbe concordare con queste premesse lo studio prodotto di Indeed che identifica una tendenza a livello internazionale nel ricercare lavori più impegnativi in termini di prospettive e competenze a discapito degli ambiti di impiego più ripetitivi e a basso valore aggiunto.

Crescono quindi settori come l’ingegneria civile, l’informatica, l'ICT, i media e la comunicazione. Calano, come da notizie recenti, il settore turistico ricettivo, i lavori legati alla casa e alla cura della persona.


E in Italia? In un mercato del lavoro poco agile, con grosse sacche di disoccupazione e le percentuali più alte in Europa di NEET, beh... Il posto di lavoro, specialmente se indeterminato, è ancora vissuto come un lusso a cui, in mancanza di valide e certe alternative, è difficile rinunciare.

Nonostante ciò, il fenomeno è in rapida evoluzione anche nel Bel Paese. Di recente, l’Associazione Italiana Direzione Personale (AIDP) ha pubblicato i dati secondo cui le dimissioni volontarie fra i giovani in Italia toccano il 60% delle aziende. I settori più coinvolti sono quello Informatico e Digitale (32%), Produzione (28%) e Marketing e Commerciale (27%).

A scegliere di cambiare lavoro sono soprattutto le persone nella fascia d’età compresa fra i 26 e i 35 anni, che costituisce il 70% del campione analizzato e perlopiù impiegati in aziende del Nord Italia.



Analizzando i dati del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sulle cessazioni dei rapporti di lavoro nel secondo trimestre del 2021, emerge è che c’è stata una crescita tendenziale del +43,7%.

In particolare tra aprile e giugno c’è stato un incremento delle cessazioni che ha fatto registrare 2 milioni 587mila chiusure dei rapporti lavorativi, con una crescita del 37% rispetto al trimestre precedente e un +768mila unità rispetto allo stesso trimestre del 2020. Di queste, 484mila per dimissioni volontarie dei lavoratori. E in generale la quota di abbandono volontario sul totale degli occupati ha superato il 2% per la prima volta da anni.


Great Resignation nel mondo delle vendite in Italia: reale tendenza o fenomeno incidentale?


Nelle vendite è da anni che assistiamo ad una preoccupante diminuzione dei professionisti accreditati (tranne rare eccezioni come l'immobiliare e il finanziario, ndr): basti pensare che Enasarco ha comunicato che nel periodo 2014-2020 (e quindi ancora prima della Great Resignation) vi è stata una diminuzione di più di 50.000 unità.

Quali sono le cause? Beh, ce ne sono diverse... Innanzitutto uno scarso ricambio generazionale (il rapporto tra agenti andati in pensione e neo-immatricolati è da anni che ha saldo negativo), abbandono del mestiere (più di 30% di p.iva chiuse nell'ultimo biennio rispetto al periodo 2017-19), contrazione dei consumi e crisi di alcuni mercati.

Tralasciando quelle che sono cause endemiche, concentriamoci invece sulle motivazioni che spingono un commerciale a cambiare azienda e a rimettere il mandato.



Motivazione al cambiamento: i datori di lavoro sono connessi con le emozioni dei propri dipendenti?


Contrariamente a quello che potrebbero pensare gli imprenditori/responsabili hr/manager, un consulente commerciale non cambia quasi mai per un semplice miglioramento economico o un aumento della provvigione.


Vi è un gap tra le motivazioni reali che spingono le persone a cambiare e ciò che pensano i loro datori di lavoro.

Vediamo quali sono i principali fattori di cambiamento:


1. il non sentirsi apprezzati dalle loro organizzazioni dai loro manager

2. il non sentire un senso di appartenenza al lavoro

3. non scorgere una progettualità o una direzione chiara nella politica commerciale della società

4. non sentirsi supportati - soprattutto in un periodo complicato come quello che stiamo vivendo - con politiche di marketing (leads generation, pubblicità locale, sui social e sul web, azioni di nurturig nei confronti della clientela) volte a massimizzare le capacità commerciali del professionista.


Ciò fa capire come mai come in questo momento storico sia fondamentale mettersi in ascolto della propria forza vendita e farsi le domande giuste, come ad esempio quelle suggerite dallo studio di McKinsey:

  • I manager sono in grado di motivare e ispirare i loro team, e di guidarli con passione?

  • Le persone giuste sono nei posti giusti?

  • Quanto forte è la cultura dell’organizzazione?

  • Quanto la forza del rapporto che si ha con le persone dipende unicamente dalla leva economica?

  • I benefit previsti sono in linea con quelli che si aspettano (e che vorrebbero) le persone?

  • I collaboratori vogliono percorsi di carriera e opportunità di crescita. In che misura si riesce ad accontentare queste esigenze?

  • Si sta davvero costruendo un senso di comunità?

A queste sarebbe opportuno aggiungerne altre 4 più universali:

  • Gli economics sono in linea con le mansioni e le competenze?

  • Quanto si è davvero flessibili (e non solo sulla carta)?

  • L’impegno che si ha verso le persone che lavorano da tempo in azienda è lo stesso che si ha quando si vuole reclutare qualcuno?

  • In che misura ci si pone davvero in ascolto delle esigenze dei collaboratori?

Una volta risposto a queste domande, si può cercare di attuare una strategia di employee retenton che ci aiuti a comprendere meglio le esigenze delle persone all'interno della nostra organizzazione rafforzandone anche valori intangibili quali fiducia e senso di appartenenza cercando così di prevenire malcontento e possibili dimissioni.



Qualche consiglio per prevenire la fuga della vostra rete commerciale: 6 azioni pratiche per costruire una strategia di employee retention efficace


Notate dei segnali di scollamento tra la rete commerciale e il vostro dipartimento vendite? Non è necessariamente un male perché se riuscite a cogliere i cosiddetti “segnali premonitori” siete anche in grado di elaborare le informazioni che provengono dal comportamento dei collaboratori e comprenderne la causa: la riduzione della produttività di un collaboratore, la sua scarsa motivazione, le sue frequenti lamentele o la scarsa apertura alla condivisione o alle novità rientrano perfettamente nell